lunedì 22 ottobre 2007

Non è più tempo di una Chiesa monolitica.

di Robert Blair Kaiser.
Siete tutti consapevoli del fatto che la nostra Chiesa è in crisi, e che, a causa dei nostri attuali problemi, molti cattolici, giovani e anziani, stanno abbandonando la Chiesa. Secondo i demografi del nostro Paese, i cattolici rappresentano la prima confessione religiosa negli Stati Uniti. E la seconda qual è? Quella degli ex cattolici. Gary Wills, nel suo libro Papal Sins, ha argomentato che la Chiesa è un’istituzione corrotta, guidata da un’élite più occupata a salvare se stessa che a servire il popolo di Dio. Non stupisce che la gente abbandoni la Chiesa, in particolare i giovani, ancora più in particolare le giovani donne, le quali si rendono conto di essere state relegate ad una cittadinanza di terza classe. Nei circoli della Chiesa ufficiale, le donne non sono solo membri del laicato, ma membri difettosi del laicato, visto che non hanno il pene e quindi non possono essere "immagine di Cristo". Qualsiasi cosa ciò significhi. Wills ha pubblicato il suo libro nel giugno del 2000. Da allora, le cose non hanno fatto che peggiorare. Nel gennaio 2002, gli scandali sessuali hanno cominciato a guadagnare le prime pagine del New York Times. Grazie all’attenzione della stampa, si sa molto sugli scandali sessuali, sui miseri preti che per decenni hanno abusato di ragazzini e ragazzine. Forse non siete ancora a conoscenza degli scandali finanziari che sono destinati ad eclissare quelli sessuali. A Milwaukee, nel Wisconsin, un arcivescovo può cercare di mettere a tacere il suo amante gay ricattatore firmandogli un assegno da 450.000 dollari. Un monsignore in Florida torna a casa, a Del Rey Beach in Florida, da una lunga vacanza in Irlanda per affrontare l’accusa di essersi appropriato indebitamente di più di 7 milioni di dollari della sua parrocchia, nel corso di vent’anni. A Montecito, in California, una commissione finanziaria parrocchiale scopre che il proprio pastore ha rubato più di un milione di dollari. Quando ne viene informato il vescovo, lui silura la commissione finanziaria. Un ulteriore segno di crisi: i nostri vescovi, che hanno coperto e continuano a coprire gli scandali sessuali e quelli finanziari, non capiscono il concetto di responsabilità, almeno non nei confronti delle persone che sono chiamati a servire. È piuttosto interessante che tale mancanza di responsabilità nella nostra Chiesa ci offra un’opportunità di correggere il nostro percorso. Sono qui a dire che coloro che sono indignati per questa Chiesa statunitense corrotta e in disgregazione non devono abbandonarla. Intendo dimostrare come possiamo creare una Chiesa del nostro popolo negli Stati Uniti, pur continuando ad essere buoni cattolici. In che modo? Non cambiando le cose in cui crediamo, ma esigendo cambiamenti nel modo in cui ci governiamo. La Chiesa non è sempre stata governata nel modo in cui lo è oggi, da un capo assoluto che governa in modo assolutista, eletto in una votazione segreta da 115 cardinali carichi di anni in un conclave. Per i primi sei secoli, è stato il popolo di Roma a eleggere i suoi vescovi, alla fine chiamati "papi". Non abbiamo avuto un Mosè cattolico che ha portato giù dal Monte Sinai le tavolette di granito del diritto canonico. Sono stati gli uomini a inventare il diritto canonico nel XII e XIII secolo. Gli uomini (e spero le donne) possono reinventare altre forme di governo più adeguate al nostro tempo e al nostro luogo. Non ho progettato questo piano tutto da solo. Sono stato supportato da molti storici e teologi cattolici (la maggior parte a Roma) che temono di dire in pubblico ciò che in via confidenziale sostengono in privato: che la Chiesa cattolica statunitense può correggere il tipo di potere assoluto esercitato in modo assolutista da uomini di Chiesa che non comprendono il concetto prettamente americano di responsabilità. Nella lingua italiana, non c’è una parola equivalente a "accountability" (un termine che unisce il concetto di responsabilità e quello del dover rendere conto a qualcuno di qualcosa, ndt). È una delle ragioni per cui gli uomini di Roma (non le donne) continuano a cercare di governare la Chiesa dall’alto in basso, anche se vivono in una sorta di mondo che va dal basso verso l’alto. Pongo questa domanda: i cattolici degli Stati Uniti devono vivere per sempre in questa sorta di Chiesa monolitica? Nel mio ultimo libro, A Church in Search of Itself ("Una Chiesa in cerca di se stessa", ndt), parlo della mia intuizione originaria sul fatto che la Chiesa non è un monolite. Dopo due viaggi intorno al mondo, in cui ho osservato le Chiese locali dei cinque continenti, ho trovato una Chiesa unita in un’unica fede, ma caratterizzata da forme molto diverse a seconda dei diversi Paesi, e in teoria almeno i burocrati del papa dovrebbero essere soddisfatti di questa situazione. Mi piace dirlo, perché, dai tempi e a causa del Concilio, la Chiesa è più cattolica, meno romana. E, se crediamo alle parole di Gesù agli apostoli sull’autorità, la Chiesa non ha mai voluto essere un monolite. Meno che mai una monarchia, che è un incidente della storia. Non penso che la monarchia fosse ciò che Gesù aveva in mente quando disse agli apostoli che dava loro un nuovo tipo di autorità, un’autorità di servizio, non di dominio. Nel capitolo 22 di Luca (e in altri punti dei vangeli sinottici) Gesù dice: "il più grande tra di voi sia come il più piccolo". Certo, gli apostoli non l’hanno capito subito. Hanno continuato a discutere su chi fosse "il primo". Ma se analizziamo il discorso di Gesù, possiamo concludere che la sua Chiesa avrebbe dovuto essere una Chiesa in ascolto e al servizio, una Chiesa i cui pastori avrebbero dovuto essere in costante dialogo con il loro popolo, in modo da poterlo servire meglio. Gesù, che probabilmente osservava da vicino pastori e pecore sulle erbose coline della sua nativa Galilea, ha gettato luce sul tipo di comunicazione che avrebbe dovuto esserci tra un vescovo e il suo popolo. Il suo Buon Pastore avrebbe dovuto dire: "Io conosco le mie pecore, e loro conoscono me". Quanta gente in questa sala conosce il proprio vescovo? Quanti vescovi in ogni città americana conoscono il loro popolo? Il mio vescovo di Phoenix, in Arizona, si sottrae al suo popolo di persone e anche al suo popolo di preti. Ho partecipato ad un pranzo per una raccolta di fondi a Phoenix per le Catholic Charities. Circa 700 tra le persone che contano a Phoenix erano presenti. Il vescovo non si è fatto vedere. Conosco un monsignore che di recente è stato mandato a rilevare una parrocchia in crisi in una periferia di Phoenix. Per sei mesi, non è riuscito a parlare al telefono con il vescovo. Né il vescovo lo ha chiamato. "Io conosco le mie pecore e loro conoscono me?". A quanto sembra, non certo a Phoenix. Né in molte città americane, dove è molto più facile essere ricevuti dal sindaco. La diversità, cuore della cattolicità A Baltimora, l’autunno scorso, i vescovi americani si sono incontrati solennemente in assemblea e hanno ulteriormente dimostrato quanto siano sordi di fronte alle questioni che preoccupano la maggior parte dei cattolici. Hanno parlato di controllo delle nascite e di matrimonio omosessuale, e hanno detto che coloro che praticano il controllo delle nascite (secondo le stime, circa il 96% delle coppie cattoliche Usa) e coloro che hanno "un’inclinazione omosessuale" non dovrebbero fare la comunione. Speravano forse che, minacciandoci, non notassimo ciò che hanno fatto e continuano a fare alla nostra Chiesa? Sono qui per dire che invece l’abbiamo notato. E che sempre più voci si stanno unendo per chiedere una Chiesa statunitense, una Chiesa responsabile e in ascolto in America. Esse ci dicono che la nostra Chiesa non è abbastanza statunitense. Che è troppo romana e non abbastanza cattolica, e per "cattolica" intendo universale. La Chiesa non è un monolite. È diversa, in diverse parti del mondo. Lo è sempre stata e penso che sempre lo sarà, nonostante sottolineiamo la nostra unità nella fede, accanto alla nostra diversità culturale. Ho iniziato a rendermi conto della diversità della Chiesa quando la rivista Time mi ha mandato a coprire il Vaticano II nell’autunno del 1962. Durante la prima sessione del Concilio, ogni giorno ero in piazza san Pietro, dopo le 12, con i miei colleghi della Stampa Vaticana, in attesa che i 2.200 Padri conciliari uscissero dalla sessione mattutina, in modo tale da poter parlare con i vescovi e i teologi che erano al Concilio mentre noi eravamo fuori ad aspettare. Guardavamo queste vere e proprie Nazioni Unite della Chiesa scendere i gradini di San Pietro, in una sorta di cascata color porpora. E com’erano diversi tra loro! Visi neri e olivastri e visi orientali, con la barba, e rubicondi visi irlandesi. Per la prima volta, avevamo la vivida prova dell’uni-versalità della Chiesa, che è la sua cattolicità. Una prova più chiara ancora del diverso modo di essere della Chiesa veniva dalle liturgie conciliari che ogni giorno avviavano i lavori. Non solo la messa romana in latino, ma le messe celebrate di volta in volta secondo il rito melkita, bizantino e copto. Questi riti rappresentavano una parte della Chiesa poco conosciuta (almeno a noi occidentali): le altre 20 Chiese autoctone antiche e moderne (alcune delle quali, come quella caldea, più antiche di quella cattolica di rito romano), per lo più del Medio Oriente, con il loro governo, i loro patriarchi, le loro liturgie nelle loro lingue, il loro clero, sposato o non sposato. Ma tutte Chiese cattoliche bona fide. Il Concilio stesso ha ripudiato la posizione di Leone XIII che condannava, nel 1899, ciò che lui chiamava Americanismo, l’idea, cioè, che i cattolici americani potessero introdurre la democrazia nelle strutture della Chiesa negli Stati Uniti ed essere diversi dalla Chiesa che egli conosceva a Roma! La lettera di Leone (la chiamò "Pegno di Nostra benevolenza") gettò la gerarchia Usa in uno stato catatonico: i vescovi si ritirarono in una deferenza codarda nei confronti di Roma, permettendole di esercitare un crescente centralismo e (aggiungerei) di imporre un conformismo che non era coerente con la libertà dal dominio della Chiesa che Cristo predicò durante la sua vita pubblica. Tom Doyle l’ha detto efficacemente al congresso nazionale dell’organizzazione Call to Action a Milwaukee. I capi dei malvagi nel racconto evangelico erano l’antico equivalente dei cardinali della Chiesa di oggi, gli scribi e i farisei che spadroneggiavano sul popolo e lo soffocavano con una rete di leggi disumane e di regole che si supponeva venissero "da Dio". A Gesù questo non piaceva. Infatti, ha detto Doyle, "L’unica volta in cui Gesù è davvero diventato matto è stata quando è andato in chiesa". Al Vaticano II, i Padri conciliari scrissero un documento per un nuovo tipo di Chiesa del popolo, che cercava di rovesciare la vecchia struttura piramidale. Nel progetto chiamato De ecclesia (quello che diventò poi uno dei documenti chiave del Concilio, Lumen gentium) ridefinirono la Chiesa come Popolo di Dio. Il papa e i vescovi, che occupavano un posto preminente nel capitolo uno, furono spostati al capitolo tre, e fu dato loro un nuovo mandato: non di dominare, ma di servire il popolo di Dio. In una serie di altri documenti, venne sottolineato e risottolineato il fatto che questa avrebbe dovuto essere una Chiesa del popolo. Non ho tempo di addentrarmi in ognuno di questi documenti, posso solo citare la decisione del Concilio di restituire la messa al popolo, passando dalla lingua dell’élite alle lingue vernacolari. I Padri ne discussero per un mese. L’Ufficio stampa vaticano ci riferì di un sostanziale equilibrio tra favorevoli e contrari. Immaginate la nostra sorpresa quando i Padri approvarono la messa nelle lingue vernacolari con una proporzione di 2.000 contro 200! Caspita! Votando a favore della messa nelle varie lingue dell’intero pianeta, rendevano la Chiesa meno romana, più cattolica. I Padri piantarono i semi di un ulteriore cambiamento creativo quando elaborarono il fondamento teorico per una Chiesa inculturata, rivisitando 400 anni di imperialismo romano, correggendo la storia della Chiesa e riscrivendo la sua teologia. Richiamarono alla memoria il XV secolo, quando i missionari europei arrivarono in Africa e in Asia, imponendo la loro cultura e la loro lingua sui cosiddetti selvaggi senza Dio. Sostenuti dai soldati coloniali, e basandosi sulla legge coloniale, insegnarono devozioni coloniali e una teologia coloniale in chiese coloniali costruite nello stile architettonico di Lisbona, Parigi e Roma. Ne abbiamo abbastanza, dissero coloro che redigevano il documento per il Vaticano II. Cristo doveva avere un volto africano in Africa e asiatico in Asia. Gesù non aveva bisogno di un passaporto. Dai tempi del Vaticano II, le autorità di Roma hanno cautamente avallato l’inculturazione, soprattutto in Congo. Lì, il clero congolese locale e il suo popolo hanno dato vita ad una liturgia congolese locale, con percussioni e danze e messe in ognuno dei numerosi dialetti congolesi. I cattolici statunitensi possono capire perché gli africani abbiano bisogno di una Chiesa che sia in sintonia con il modo in cui gli africani pensano e sentono. Ma pochi hanno pensato a costruire una Chiesa negli Stati Uniti coerente con il modo in cui la maggior parte degli americani pensa e sente. Alcuni hanno cercato di farlo all’inizio della storia degli Stati Uniti. Il primo vescovo americano, John Carroll, fu eletto da un voto popolare dei preti della nazione nel 1789. E negli anni Venti del XIX secolo il vescovo di Savannah, in Georgia, John England, scrisse una costituzione per la sua diocesi che dava al suo popolo voce e diritto di voto. In seguito, purtroppo, Roma insistette sul diritto di nominare i vescovi di questo Paese, spesso stranieri scelti per la loro fedeltà a Roma e non per la loro volontà di servire il popolo, lo stile locale, e quei vescovi stabilirono un modello per la Chiesa Usa che ha resistito fino ad oggi. Molti vescovi agiscono come se lavorassero per il papa, e molti preti agiscono come se lavorassero per i vescovi, e il popolo-popolo è lasciato a pregare, pagare e tacere. Che cosa possiamo fare? Nulla, dicono alcuni, considerando la stretta mortale di Roma sull’America da 200 anni a questa parte e l’abituale, quasi automatico sospetto da parte del Vaticano stesso verso qualsiasi tipo di cambiamento. Altri sostengono che potremmo ribellarci, seguendo l’esempio dei Padri fondatori americani. Ma noi sosteniamo che non è necessario andare verso uno scisma formale o di fatto. Dobbiamo semplicemente convincere i vescovi (mai sottovalutare il potere dell’opinione pubblica…) ad inculturare il Vangelo negli Usa, creando una Chiesa americana autoctona moderna, sul modello dei maroniti, dei melchiti, dei bizantini, dei copti e di altre sedici Chiese autoctone del Medio Oriente. "Autoctono" è un parolone greco che esprime un concetto più semplice di quanto sembri. "Autoctono" non significa "autonomo". Significa cresciuto in casa, tessuto in casa, fatto in casa. Significa "vero". La Chiesa degli Stati Uniti può diventare una Chiesa moderna e autoctona? Non è impensabile. Nel 1925, il cardinale belga Mercier, un pioniere, propose che la Comunione anglicana tornasse unita a Roma come Chiesa autoctona, con il suo clero sposato e la sua liturgia inglese. Mercier era avanti sui tempi. Ora, poco più di 70 anni dopo, si parla più spesso di autoctonia. I vescovi indonesiani hanno rivendicato una Chiesa autoctona in Indonesia al Sinodo per l’Asia di Roma nel 1998, in base al principio che Roma non aveva "né la conoscenza né la competenza" per prendere decisioni pastorali in Indonesia. Nel 2001, ad un altro sinodo a Roma, i vescovi indonesiani hanno chiesto un nuovo concilio ecumenico che potesse lanciare la radicale decentralizzazione insita nel concetto di autoctonia. "Solo allora – hanno detto – potremmo essere liberi di proclamare il Vangelo". Poco dopo il Vaticano II, un teologo di nome Joseph Ratzinger suggerì che il futuro della Chiesa, in particolare nelle terre di missione, potesse trovarsi nell’autoctonia. Giovanni Paolo II disse una volta che anche lui avrebbe considerato l’ipotesi di approvare nuove Chiese autoctone nelle terre di missione. Forse pensava alla Cina, dove voleva così fortemente che la Chiesa cattolica fosse riconosciuta, da essere pronto a pagare il prezzo di Pechino, il diritto di nominare nuovi vescovi. Se Benedetto XVI lo farà, darà alla Chiesa in Cina un provvedimento di autoctonia. Potrebbe anche approvare l’autoctonia negli Stati Uniti, se solo comprendesse che sarebbe un modo (l’unico) per rendere la Chiesa americana di nuovo credibile e contrastare così la straordinaria emorragia di giovani, in particolare di giovani donne, da una Chiesa che si trova bloccata, per esempio, in una teoria del ministero che impedisce a metà dei suoi membri l’accesso al sacerdozio in un’epoca in cui vi è una drammatica carenza di preti. Senza chiedere permesso Oso dire, tuttavia, che non dobbiamo aspettare l’appro-vazione del Vaticano per procedere nell’autoctonia. Secondo me, i vescovi indonesiani hanno fatto un errore fatale nel chiedere il permesso di creare una Chiesa autoctona. Avrebbero dovuto "farlo e basta". La Chiesa di Roma avrebbe forse dichiarato la Chiesa indonesiana scismatica solo perché aveva bisogno di creare una Chiesa cattolica indonesiana in Indonesia? Nell’arcipelago indonesiano, uno dei Paesi più grandi del mondo? Ne dubito. Qualche volta, come ho imparato quando ero novizio nella Compagnia di Gesù, è meglio chiedere il perdono che il permesso. Allora, come possiamo creare una Chiesa cattolica Usa? Il diritto canonico prevede un processo per la ristrutturazione, da parte dei cattolici, del loro governo in ogni nazione. Si chiama Sinodo regionale o nazionale. La Chiesa americana ne ha avuti tre nel XIX secolo, il primo, secondo e terzo Concilio di Baltimora, in cui i delegati, tutti vescovi, non laici, stabilirono norme per i cattolici americani. Il diritto canonico aggiornato ora afferma, tuttavia, che un Sinodo nazionale può comprendere non-vescovi fino al 50% dei delegati. Se questi delegati fossero eletti dai cattolici in ogni Stato e rivendicassero un ruolo attivo, il Sinodo potrebbe assumere il carattere di una assemblea costituzionale, e i delegati potrebbero redigere una carta per la Chiesa del popolo. I delegati sicuramente discuterebbero sui singoli aspetti della carta, come fecero i Padri fondatori di questo Paese nell’Assemblea costituente del 1787. Ci vollero tre interi mesi di discussioni roventi per scrivere la Costituzione degli Stati Uniti. E anche così non fu perfetta. Dovettero tornarci sopra e scrivere dieci emendamenti, che noi oggi chiamiamo Carta dei Diritti. E nemmeno allora tutto filò liscio. I Padri fondatori non affrontarono con giustizia la questione della schiavitù, e questo determinò una febbre razzista che non abbiamo ancora eliminato. Se i delegati di un quarto Concilio di Baltimora volessero guidare una Chiesa del e per il popolo, potrebbero seguire il modello costituzionale americano, con un ramo esecutivo, uno legislativo e uno giudiziario. Potrebbero convocare l’elezione popolare di due organi parlamentari: un Senato dei vescovi e una Camera dei comuni, un presidente (o un consiglio esecutivo) eletto, e un giudiziario nominato con il consiglio e il consenso di entrambi gli organi. Radicale? Sì, radicale viene dalla parola latina radix, radice. Tale cambiamento nel modo di governarci (non un cambiamento in ciò in cui crediamo) va alla radice dei nostri problemi. Rivoluzionario? Sì, anche rivoluzionario. Siamo americani fieri del fatto che il nostro Paese abbia avuto inizio con una rivoluzione. Ma che cosa può spingere i vescovi (e il papa) ad aprire le porte ad una rivoluzione radicale nella Chiesa statunitemse come questa? Noi. Noi, il popolo, possiamo farlo, se e quando raggiungeremo un punto critico, una massa critica di opinione pubblica. Se è abbastanza massiccia, l’opinione pubblica può far cadere i governi dalla sera alla mattina. E non c’è bisogno che sia massiccia fino a questo punto. Gli esperti in dinamiche di gruppo affermano che già il 5% della popolazione è sufficiente a creare una pressione pubblica in grado di smuovere anche i governi dittatoriali. È stata forse l’intera popolazione di Manila (otto milioni circa di persone) a marciare contro il presidente Ferdinando Marcos obbligandolo a fuggire dalle Filippine nel 1983? No. Appena il 5% di essa, 400.000 persone, ha marciato in Avenida Epifanio de los Santos, una grande arteria nell’area metropolitana di Manila, mentre i militari di Marcos stavano da parte, senza sparare nemmeno un colpo. Abbiamo con modestia dichiarato, qui, che i cattolici degli Stati Uniti hanno il potere di dare vita a una rivoluzione radicale nella Chiesa americana. Ciò di cui abbiamo più bisogno è comprendere che non siamo soli. Prima che inizi la rivoluzione, dobbiamo sapere chi siamo, quanti siamo, e dove vogliamo andare. Ecco perché dovete visitare il sito www.takebackourchurch.org e firmare a favore della rivoluzione. Se riprenderci la nostra Chiesa è una buona idea, se cioè, è ispirata dallo Spirito Santo, ce lo farà sapere. Se non lo è, cadrà nel vuoto. Ma dobbiamo fare la nostra parte. Nel 1978 Giovanni Paolo II si recò a Varsavia, in Polonia, e disse a milioni di polacchi "Potete riprendervi il vostro Paese se lo chiedete!". Noi stiamo dicendo la stessa cosa. "Possiamo riprenderci la nostra Chiesa, se lo chiediamo". È tempo di impadronirci della cittadinanza nella nostra Chiesa con una voce ed un voto. Queste parole potrebbero spaventare alcuni cattolici americani. Se è così, bene. È tempo, nella nostra Chiesa in frantumi, di spaventarsi seriamente, e questo sentimento ci scuoterà spingendoci ad agire come fecero i nostri Padri fondatori quando scrissero la Dichiarazione di indipendenza, e decisero di combattere con moschetto e palla di cannone. Noi, però, non stiamo parlando di una rivoluzione violenta. Non scriveremo nemmeno una Dichiarazione di Indipendenza. Scriveremo una Dichiarazione di Autoctonia, che lancerà la sfida al nostro popolo-clero e al nostro popolo-popolo affinché elabori una costituzione per la Chiesa americana che accantoni con cautela i legalismi codificati nel diritto canonico, romanizzati, caratterizzati dal segreto, limitati, culturalmente condizionati, per tornare a un tipo di Chiesa di servizio, prefigurata al Vaticano II. Non vogliamo uno scisma né stiamo lanciando una sfida alla fede che abbiamo o alla fede che esprimiamo a Messa nel Credo niceno. Non stiamo nemmeno promuovendo il rovesciamento dei nostri vescovi. Vorremmo amare i nostri vescovi, perché è proprio la loro presenza a dirci che siamo parte di una tradizione che risale agli uomini che per primi seguirono Gesù, gli apostoli. Vogliamo soltanto che siano ciò che Gesù voleva che fossero: vescovi servi, non vescovi signori, in un mondo che ha bisogno del messaggio salvifico del Vangelo ora, oggi, più che mai. (da www.adista.it)
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Robert Blair Kaiser (nato nel 1930) è uno scrittore e giornalista, meglio conosciuto per la sua scrittura sulla Chiesa cattolica. As a correspondent for Time Magazine , he won the Overseas Press Club’s Ed Cunningham Award in 1962 for the "best magazine reporting from abroad" for his reporting on the Second Vatican Council [1] Come corrispondente di Time Magazine ha vinto la Overseas Press Club’s Ed Cunningham Award nel 1962 per il "miglior rivista segnalazione dall’estero" per la sua segnalazione sul Concilio Vaticano II. Egli è il redattore capo della linea ufficiale, Just Good Company.

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